Le scarpe in mano IV



        IV


Dalla casa dove Buck aveva fatto la guardia per tanti anni, legato al robusto tronco dell’olmo, con quella  lunga catena che tanto mi impensieriva, alla casa di Ottavio, in linea d’aria ci saranno sì e no duecento metri. Lasciata la strada provinciale, subito dopo la prima curva della lunga via che percorre tutto il centro del paese, si apre la corte, una volta tipicamente agricola ed oggi ormai adeguata alle esigenze del nostro tempo. Anche qui, davanti alla fila delle abitazioni, lasciato il posto all’ampia aia, indispensabile nell’ambiente contadino, il portico e la stalla offrivano riparo rispettivamente agli attrezzi e agli animali. Il deposito del letame e quello del pozzo nero, la latrina esterna, il pagliaio per il fieno e la bica delle presse di paglia  erano i necessari complementi per l’attività che si svolgeva nei campi e intorno a casa, secondo l’alternarsi del ciclo delle stagioni e delle colture.

Pollai e conigliere compensavano le cure delle massaie, sempre impegnate a pulire e nutrire le bestiole allevate, con la presenza in tavola, specialmente per le feste, di squisite portate di carne genuina, senza contare la preziosa risorsa delle uova. Questi prodotti in parte erano destinati alla vendita, ma anche oggetto di opportuni omaggi  nelle situazioni che lo richiedevano. Un giro di laboriosità, sacrifici, fatica e favori fatti e resi, importante nell’economia della famiglia e dalla comunità.
Pulcini petulanti e chiocce vigili, ma anche anatroccoli gialli e neri, in corteo dietro all’anatra muta, facevano la gioia dei bambini, che imparavano nei cortili le leggi della Natura. Coniglietti rosati, che dopo poco diventavano soffici batuffoli di pelo, sembravano uscire da ingenue cartoline pasquali. La nascita di vitelli e puledri, le tenere cure delle madri e la fragilità delle bestiole appena nate, tramanti e umide, era un forte richiamo per l’affettività e per la conoscenza.
Anche per gli animali valgono le regole dell’esistenza, per cui cause imprevedibili o comunque non soggette al controllo umano, trasformano il momento delicato della nascita di un nuovo essere in un momento inaspettatamente tragico. Mi ricorderò sempre di una mucca i cui gemiti non si conclusero con il muggito del neonato vitellino, ma, nonostante il prodigarsi del veterinario e degli uomini presenti, esperti anche loro, il piccolo non vide la luce e anche la mamma non sopravvisse. Scese il silenzio dopo ore di muggiti strazianti  che dalla stalla si espandevano nell’oscurità della sera che ormai era sopraggiunta. Nessuno di noi bambini chiese spiegazioni, nessuno degli adulti cercò di sdrammatizzare. Il mistero della morte e della vita non prevede compromessi.

Dopo che la vanga, maneggiata da braccia energiche, aveva rivoltato la terra, con decisi colpi di piede sul “pallonzolo” per affondare la lama lucente, la coltivazione dell’orto vicino a casa era quasi sempre un’occupazione delle donne. L’assortimento di ortaggi e piante aromatiche garantiva una cucina gustosa e varia, con ricette tramandate e amate da generazioni, sia nella cucina festiva che nel riunirsi intorno al desco per i pasti  quotidiani, momento quasi rituale non solo destinato al necessario sostentamento, ma ricco di significati profondi ed ancestrali, del quale anche contrasti e liti, polemiche e discordie potevano far parte, perché purtroppo tutto questo fa parte dell’esistenza, ma nell’affetto e nel rispetto si cercava la maniera per ritrovarsi.

A Vecchiano, tranne poche case coloniche sparse per la campagna circostante, i contadini vivevano dentro al paese e, fino a pochi decenni fa, era comune sentire  il rumore delle ruote dei carri agricoli, che noi abbiamo sempre chiamato barrocci, trainati dai cavalli, più raramente da un ciuco, che accompagnava l’andata e il ritorno dei coltivatori dai campi. Quattro viaggi al giorno scandivano, la mattina presto,
( qualche volta anche prima dell’alba ) a mezzogiorno, nelle prime ore del pomeriggio e al tramonto ( qualche volta anche più tardi) le intense giornate che il lavoro della terra ha sempre preteso, per dare i suoi frutti. A mezzogiorno, oltre alle campane dell’Angelus delle due chiese del paese ed al rumore dei cerchi di legno delle grandi ruote dei barrocci, anche le cave davano il loro segnale, con l’esplosione delle mine, fatte brillare prima della pausa del frugale pranzo dei cavatori.
Un particolare del passaggio dei barrocci, che era difficile ignorare sia per la vista che per le narici, erano le tracce che gli animali da tiro si lasciavano dietro e sembrava che prendessero di mira determinati tratti della strada, decorandoli in modo più abbondante,
con una precisione spazio – temporale che faceva nascere anche qualche atteggiamento persecutorio da parte dei residenti in tali punti strategici.
    Nelle veglie estive davanti alle case e sulle aie, alla ricerca, talvolta vana, del punto più ventilato per ristorarsi prima della nottata, spesso insonne per l’afa dei nostri posti, anche questo era argomento di bonarie prese in giro e facili ironie per
la fantasia dei paesani più vivaci.
Ottavio faceva senz’altro parte di questa categoria. Arguto e gioviale, si valeva di una comunicativa spontanea e coinvolgente, da cui si intuiva un legame profondo con la gente e i luoghi e la familiarità totale con il suo ambiente, il tutto accompagnato da una parlata spedita e ironica, il cui tratto più spiccato era l’umorismo colto in ogni situazione.
La sua competenza per aneddoti, soprannomi delle più svariate origini e commenti per ogni evento era pari alla perizia nel suo lavoro di coltivatore e allevatore di bovini e questa caratteristica ha sempre accompagnato la  sua vita, in famiglia, nei campi e nella stalla.
    Tutto sembra ripetersi, immutabile e rassicurante, ma qualche volta il corso dell’esistenza si inverte, come per un capriccio tragico e incomprensibile.
In un’epoca della vita che già, per Ottavio, ha varcato le soglie della vecchiaia e che, inespressa ma presente, già  si profila l’attesa del compimento del proprio destino, la malattia del figlio, nella piena maturità dei suoi anni , ed il suo repentino epilogo, sconvolgono la famiglia.
     Nel corso della malattia, vincendo lo scoraggiamento, le necessità di accudire il bestiame rende indispensabile  lo sforzo di proseguire nell’impegno e nella fatica : la Natura impone le sue leggi, nel bene e nel male.
Il vecchio padre è consapevole che l’infermità senza speranza del figlio è resa ancora più dolorosa dall’impossibilità di “governa’ le bestie”, come si dice noi, riassumendo in un’espressione il nutrimento, la pulizia, la mungitura e tutte le operazioni che legano l’allevatore ai suoi animali, in un rapporto di reciproca dipendenza.
    Allora, per alleviare questa amarezza :”Mi levo presto, scendo le scale con li zoccoli in mano per ‘un fammi sentì e vado nella stalla…”.
    Poi giunge il momento in cui anche questo ultimo gesto d’amore paterno non serve più.






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