Atene


“ …E quando al telegiornale parleranno della capitale della Grecia, vi ricorderete di me!”
Lontana e facile profezia, e quante occasioni ci sono state, dal nefasto regime dei colonnelli alla crisi economica degli ultimi anni. Eppure quel nome di città “culla della civiltà occidentale” ( sembra di sentire il coro di tutti i professori di storia e filosofia… ) per tutti quelli che l’hanno conosciuta non può non evocare una presenza discreta e affettuosa, con  la quale per tanti anni abbiamo condiviso un pezzo di esistenza.
Atene, il cui secondo nome era Cornelia : la storia con la  esse maiuscola si affacciava anche qui, con la madre dei Gracchi, suoi gioielli, di virtute esempio, ma la titolare non apprezzava quel sentore di corna che la radice del nobile nome richiamava alle nostre orecchie plebee, preferendogli l’ellenica gloriosa memoria.
E se il cognome da nubile era un normale Pieroni, quello da coniugata, Bellini, portatole dal marito Oreste, venditore di carbone, era come un ornamento per lei, che amava l’opera lirica e spesso tornava a vivere e a rivivere, nel ricordo, lontani spettacoli al ”Verdi”.


    L’arrivo a Vecchiano di Atene e del marito risale ai giorni tragici della guerra, quando il primo disastroso bombardamento della città di Pisa da parte dei nostri “liberatori” americani colpì la città, all’ora di pranzo del 31 agosto 1943. Serviva non solo  distruggere i centri strategici del nostro capoluogo, ma  dare una lezione all’Italia in vista dell’armistizio: il prezzo in vite umane, dolore e disperazione, distruzione di un patrimonio d’arte e di cultura non rientra nella logica bellica.
    Il quartiere di Porta a Mare, dove i coniugi Pieroni risiedevano, fu uno dei più colpiti. Dalla tragedia della guerra si diramano, come rivoli da una fonte avvelenata, tanti drammatici destini, attoniti sotto il peso immane della catastrofe, ancora incalcolabile: ma la straziante realtà è già presente, con tutto il suo orrore.
I bombardamenti continueranno fino all’estate successiva; dilagherà la distruzione, fino ad ingoiare come una voragine un quarto della città, più di mille e settecento abitanti, senza contare i dispersi.
Cominciò l’esodo verso i paesi limitrofi, dove cercare scampo e riparo, dove cercare di ricucire i brandelli dell’esistenza in un nuovo doloroso mosaico di stenti e di miseria, spesso rimettendosi ad una solidarietà priva di risorse, contentandosi di sopravvivere, talvolta anche contro la propria volontà, specie quando gli affetti più cari sono rimasti sotto le macerie, che pesano sul cuore di chi resta, lo seppelliscono, ovunque   e per sempre .Un destino da sfollati.
    Forse il cruccio di non avere figli, amarezza di una vita a due destinata a non sbocciare in un avvenire di continuità, avrà reso, in quel frangente, meno doloroso lo strappo con la vita precedente: la casa distrutta, il lavoro perso e i parenti, gli amici… Gli oggetti e i riti domestici dell’esistenza quotidiana, che quando li viviamo nella normalità neppure si percepiscono. Ma quando tutto ciò scompare nel nulla, nella violenta, rapida furia cieca della distruzione, basta un odore, un colore, un umile utensile senza storia per ritrovarsi tra le mani e nel cuore un pezzo di passato, un sentimento familiare, un attimo fuggito per sempre, ma presente nel più profondo di noi stessi. Così, dalla radice che affonda nella sofferenza, il filo dell’esistenza torna a dipanarsi: poche le illusioni e le speranze, ma la vita di chi resta porta anche la sacralità e la memoria delle vite che non ci sono più.
Atene, all’arrivo a Vecchiano, aveva sessantasei anni
Una sistemazione provvisoria consente lentamente la ripresa della vita quotidiana.
La tragedia, tuttavia, continua ad essere presente: una malattia dolorosa e senza speranza induce Oreste a porre fine ai suoi giorni. E’il dirupo sottostante il Santuario del Castello che l’uomo, ormai esasperato da un male crudele, sceglie come scenario per l’ultimo atto disperato: un volo nel vuoto, l’incredula sorpresa  dei paesani accorsi, la pietosa inutilità di un tentativo di soccorso e poi la fine. Per Atene, ormai anziana, la solitudine totale e definitiva.

    Durante la vita è inevitabile che il destino ponga le sue pietre miliari: è così per tutti, in misura diversa e ineluttabile.
Prima dello sconvolgimento della guerra e della scomparsa di Oreste, la tragedia aveva già inferto un colpo crudele alla famiglia di Atene, con la morte del fratello Amilcare.
    Era un giovane campione di scherma, come appariva nella fotografia incorniciata, posata sul comò, morto a soli ventisei anni in seguito ad una malattia allora incurabile, oggi chissà. Davanti all’immagine del giovane schermidore, con la divisa bianca, l’espressione concentrata dell’atleta prima del combattimento, il fioretto appoggiato alla spalla opposta alla mano guantata che ne teneva l’elsa, un piccolo vaso di ceramica verde portava l’omaggio di un mazzetto di fiori, rinnovati ad ogni occasione “ Prendo queste rosine, per ir mi’ povero fratello...”   e questo rituale si ripeteva ogni volta che Atene incontrava dei fiori sulla sua strada, di campo o di giardino, con l’affetto e la nostalgia che negli gli anni erano rimasti vivi, come un filo invisibile che avvicina il presente vuoto di affetti al passato ricco di ricordi: famiglia, gioventù, speranze, un passato lontano, magari un po’irreale, dal quale è dolce lasciarsi consolare.

Ma anche nel presente Atene non era sola. Viveva, da sola, in una stanzetta che una famiglia del paese le aveva messo a disposizione dopo la scomparsa di Oreste, ma aveva intrecciato con il vicinato una vita di relazione fatta di affetto, rispetto, piccoli favori fatti e restituiti e tanta compagnia. Non la compagnia sfaccendata delle chiacchiere vuote e talvolta maldicenti, ahimè, che finiscono per danneggiare qualcuno, magari il più debole della comunità, ma  lo stare insieme, con un lavoro per le mani, mai pigre e inutili. Specie al pomeriggio, qualche vicina si affacciava alla piccola stanza, unico locale di un’abitazione modestissima ed essenziale, che tuttavia conservava, ridotte ai minimi termini, le caratteristiche di una vera casa e della casa possedeva il calore e l’accoglienza,
sempre pulita ed in ordine. E quando l’età non permise più ad Atene di fare tutto da sola, era una vicina, più giovane e proverbialmente energica, a collaborare per le faccende più impegnative. Ecco che, alla fine della breve pulizia, di solito primaverile, come un segnale ”pronta a ricevere la benedizione pasquale”, appariva, rinnovato, il nastro che avvolgeva il filo a cui era sospeso il semplice piatto con una lampadina, che costituiva l’unico punto di luce. Ma durante il giorno era dalla porta, che dava direttamente sulla strada, che il piccolo locale prendeva luce. Oltre al comò con la fotografia dell’adorato fratello (il ritratto, come diceva lei, usando una parola di sapore  ottocentesco, che appartiene sia alla pittura che alla fotografia), componevano l’arredamento della stanza pochi altri mobili, essenziali, rimediati qua e là, ma  che rispondevano adeguatamente alle esigenze di una vita dalle abitudini sobrie e laboriose. Il letto, corredato, sotto alla coperta a fiorami, di un saccone di sfoglie, come si usava nel passato dai meno abbienti, da tempo non assolveva più le sue due funzioni essenziali  del riposo e dell’alcova, ma serviva come piano di lavoro e di appoggio. Da capo a letto un’immagine sacra, sormontata dal ramo di ulivo benedetto, era testimone di una religiosità più interiore che esibita, segno anche questo della discrezione che improntava per intero il modo di essere dell’anziana donna.
Non potevano mancare il fornello a gas, con la bombola collocata sotto al ripiano in muratura e l’acquaio di granito dalle sponde basse, con lo scolapiatti per ospitare il bacile
 dell’acqua : la struttura arrangiata della cucina non consentiva di più.
Le poche stoviglie erano custodite in una vetrinetta e c’era anche un mobile pensile con le ante protette da un retino, che si chiamava, eloquentemente, moscaiola.
Ma l’oggetto più importante della casa era molto più di un mobile. Era lo strumento essenziale per un mestiere portato avanti con perizia e passione fino alla più tarda età. Era la macchina da cucire “Singer”, a pedale, ovviamente, che occupava, a fianco della porta d’ingresso, il punto più luminoso della piccola abitazione: perché Atene era una sarta. Si potrebbe dire” faceva la sarta”, ma per lei quel mestiere costituiva un’identità forte, che le restituiva ruolo, dignità, autonomia e considerazione, al di là delle traversie di una lunga vita, spesso ingrata.
    “’La macchina insegna a cuci’ ” ripeteva  lei spesso, per sottolineare che anche una persona inesperta poteva imparare  ad arrangiarsi nei lavori di cucito e le riservava la massima cura. Non un grano di polvere, l’olio con il beccuccio in tutti i punti dovuti. Lei era sempre disposta ad insegnare  regole e tecniche del mestiere e correggeva gli errori delle estemporanee apprendiste con pazienza e pignoleria. Non so quella macchina da dove venisse, ma per me, bambinetta di sei o sette anni, rappresentava un autentico oggetto del desiderio. Non facevo altro che imitare la gestualità della sarta: metro, forbici, spille tra le labbra. Ma soprattutto fingere di macchinare: movimento dei piedi in sincronia con le mani che avviano la ruota laterale e guidano la stoffa sotto il piedino, dove l’ago infittisce la lunga sequenza dei punti…e il rumore imitato con la voce “ tatta tatta tattatat” e poi “nio nio nio nio “, il lamento dello stantuffo  che trasmette il movimento al pedale. Con la macchina sfilata e senza ago, a scanso d’inestricabili grovigli di filo o, peggio, di disastrose punture, Atene mi permetteva una pedalata, bisognava accontentarsi!

    Aveva fatto la sarta per molti anni ed aver a suo tempo servito “la signoria “ della città era per lei un vanto che si mescolava ai ricordi di gioventù. A dire il vero il suo esordio non fu felicissimo e spesso raccontava di come  il primo abito che confezionò ad una facoltosa cliente si rivelò in prova un vero disastro. Il giro manica era talmente largo che arrivava quasi alla vita della signora, con indicibile sgomento della sartina. Per fortuna questo incidente, ancora prima di iniziare il percorso, non pregiudicò il futuro della nuova mestierante, che a distanza di anni ancora lo rammentava, ponendolo a monito contro l’eccessiva sicurezza nell’uso delle forbici, che è senza rimedio, come troppo sale nella cucina.
    Ad ottant’anni suonati  volle essere lei a cucire il vestito per la Prima Comunione di mio fratello, che indossò un impeccabile completo marrone: pantaloni sopra il ginocchio, gilét e giacca, con i complimenti di tutto il vicinato.
   
    La vicina più prossima per Atene era la Santina, una vecchia contadina che esercitava con energia e autorità il ruolo di capofamiglia, dopo la morte del figlio.
Abitava dall’altro lato della strada, in una casa a pianterreno che le aggiunte successive avevano trasformato in un edificio basso e articolato, recintato dal muretto che seguiva la curva della via, dal quale sporgeva una spalliera di rose bianche, profumatissime.
Oltre al piccolo giardino, completavano la proprietà il forno, l’aia e la stalla ed un grande noce sembrava che ne fosse il guardiano. Proprio la stalla fu il luogo dove avvenne la  tragica morte del figlio, che pose fine egli stesso alla sua vita e  alla malattia che aveva minato  a lungo la  sua mente.
     Il viso segnato dalle rughe e prosciugato dall’esposizione al vento e al sole, vestita sempre di scuro, con i lembi del fazzoletto ripiegate sulla testa, la si poteva vedere cambiata d’abito e con i sandali o le scarpe  ai piedi solo per necessità burocratiche o per andare dal medico, con il quale vantava con orgoglio un legame di parentela. Santina gestiva la famiglia, nuora e nipoti, e conduceva una vita dedicata al lavoro dei campi con la grinta e la competenza di un uomo. Dell’altro sesso aveva assimilato modi e linguaggio, spesso rinforzato da catene di bestemmie che la fatica e l’esasperazione potevano giustificare, in una vita così provata dal dolore e dalle avversità.
Erano proprio le gragnole di moccoli a suscitare l’indignazione della dirimpettaia e, di conseguenza, a dar luogo a vivacissimi scambi di battute, che si incrociavano da un lato all’altro della strada, alternando la parlata pisana con l’accento vecchianese.
Alla diversità del linguaggio, faceva riscontro un’opposta visione della vita, in cui si contrapponevano la  mentalità cittadina e quella contadina, nonostante  dispiaceri ed  eventi tragici accomunassero la vita delle due donne e, in fondo, ci fosse rispetto nonostante le contese verbali.
“Ma ‘un si vergogna a dì quelle parole” si indignava la prima, senza rinunciare alla formalità di dare il “lei”.
“ ‘Osa volete ‘apì del lavoro de’ ‘ampi, un avete mai visto la tera!” si opponeva l’altra, con un “voi” rude e  un po’ beffardo, senza  cessare la sequenza blasfema.
“ Ma che donna è, un sa parla’ d’ artro che di ‘avoli e di spinaci… su, mi dica, che è che canta “Di quella pira”? … “Se quel guerrier io fossi”?, lo vede, un sa proprio nulla dell’opera, delle ‘ose belle der teatro…”
    Un dialogo tra sordi sarebbe stato più efficace. L’opera lirica, argomento ignorato dalla coltivatrice diretta vecchianese, per la pisana Atene rappresentava non solo una grande passione, ma anche il passato irrimediabilmente perduto sotto le macerie del bombardamento. Le domande, con le quali investiva la sua interlocutrice, con piglio da interrogazione scolastica, riflettevano le emozioni dei personaggi grandiosi e tragici che ella citava, ma erano destinate a cadere nel vuoto. Allora si rivolgeva a me, cambiando il registro della sua narrazione, e riversava nella fantasia della mia mente infantile una sequenza di eventi, storie di amore e morte, di guerre e schiavitù, dove si muovevano celesti aide, rigoletti beffati, otelli neri e gelosi, dubbiosi e pallidi amleti, pazze lucie…tutto accompagnato da arie accennate con voce grave o acuta, secondo i personaggi , con adeguata mimica e gestualità eloquente. Anche le canzoni patriottiche facevano parte del suo vasto repertorio e quando cantava “Addio mia bella addio”batteva alternativamente i piedi, stando seduta ed era come se davanti a me marciassero i soldati italiani che avrebbero riscattato onore e libertà per una patria martoriata. Non avrei mai smesso di stare ad ascoltarla: era come sfogliare uno libro di storia tutto speciale, come affacciarsi ad una finestra magica, aperta tra due secoli .

    Atene era nata sedici anni dopo l’Unità d’Italia. La vita dell’epoca per le famiglie di modesta condizione era ancora molto dura. Anche l’infanzia, per chi, della numerosa prole, sopravviveva alla tragica sorte della mortalità infantile, spesso era segnata da stenti e privazioni che da sempre la miseria materiale porta con sé, aprendo la strada alla miseria morale, tanto da minare lo spirito, come la fame e la malattia danneggiano il corpo, in un tragico circolo vizioso dal quale era difficile liberarsi, per chi non aveva altro che la forza delle sue braccia e della sua dignità, sorretta degli affetti e dalla speranza, che soli consentono il riscatto da condizioni disumane.
Così si cominciava presto a lavorare, spesso anche negli anni della scuola, nell’epoca in cui l’istruzione del popolo muoveva i primi passi, con l’istituzione della scuola elementare per contrastare l’analfabetismo generalizzato e dare alla nuova nazione cultura e sviluppo.
    Le ore di lavoro, per molti bambini e ragazzi, si alternavano a quelle della scuola,
spesso abbandonata assai presto, ma almeno si sapeva leggere, magari a stento, e tracciare il proprio nome al posto dell’umiliante croce che sostituiva la firma per gli analfabeti, quasi un marchio di ignoranza e di arretratezza.                      .
    Atene divenne una lettrice appassionata, ma anche lei doveva contribuire allo scarso bilancio familiare, e così si occupava del fratellino Amilcare , quando la madre, Gaetana, andava a vendere il pesce a Pontecorvo .“Chi vende un è mai povero” sentenziava la donna, che ben sapeva come anche pochi denari potevano sopperire alle più urgenti necessità ed il suo piccolo commercio le consentiva questa minima giornaliera sicurezza.
    La bambina, oltre a badare il piccolo e sbrigare le faccende di casa, aveva il compito di fare una certa quantità di “cordella” con l’uncinetto. Questa era un’occupazione praticata da molte bimbe di umile condizione, fin da quando erano capaci di destreggiarsi con filo e “aghetto” ed i loro prodotti andavano ad abbellire il corredo delle ragazze di famiglia agiata, che si potevano permettere di ricorrere a sarte e ricamatrici.
    Se la madre al ritorno non trovava i metri di trina previsti erano “busse”, perché voleva dire che la figlia  si era messa a giocare e aveva sprecato il tempo in trastulli ritenuti allora inutili, in un’epoca in cui le neuroscienze e la psicologia non erano ancora in grado di improntare l’educazione dei più giovani e la necessità imponeva la sua legge, fatta di fatica, di rinuncia ed era il peso precoce dell’esistenza che insegnava a vivere.
    Erano pochi ed umili i divertimenti condivisi con gli altri bambini: giochi in strada nòccioli e bottoni, qualche bambola di pezza o palla di stracci. Bastava per essere felici una collana di nocciole o una tasca piena di castagne ballotte, tesoro, merenda e compagnia di viaggio negli spostamenti a piedi, fracasso di zoccoli e “cartolare” a spalle…per chi aveva la fortuna di andare a scuola.
    Intanto la città ti girava intorno, in un caleidoscopio di antico e moderno, storia e monumenti, negozi e insegne, magie e suggestioni per la vista, l’intelletto e la fantasia.
    Gli spettacoli del teatro Verdi che, ancora dopo tanti anni conservavano nel cuore di Atene un posto speciale, non erano l’unico argomento dei suoi ricordi della gioventù e della maturità, vissute in città. A quei tempi erano pochi i privilegiati che potevano permettersi di andare a teatro, e molti attendevano i “foglietti” con il testo delle arie e delle canzoni, che venivano pubblicati in occasione delle rappresentazioni. La passione per la lirica era grande e molti conoscevano a memoria il libretto delle opere più famose: era impensabile che, meno di un secolo dopo, la tecnologia ci portasse il mondo in casa, con tutte le contraddizioni che conosciamo.
    I pisani di allora trascorrevano i momenti di festa passeggiando per le vie del centro cittadino e Atene ancora ne citava i nomi legati alla monarchia: viale Regina Margherita, via Vittorio Emanuele, dove alle facciate dei palazzi storici si alternavano negozi con eleganti vetrine e caffè alla moda. Camminando si potevano gustare “pezzi duri”, che altro non erano se non i primi gelati da passeggio. Era un evento atteso e ammirato il passaggio sui Lungarni delle prime automobili, le “carrozze senza cavalli”, come venivano chiamate, con un’espressione significativa dell’avvento di tempi nuovi.

    Insieme ai vantaggi del progresso, i tempi nuovi portarono guerre ed eventi tragici, per il nostro Paese, per l’Europa e il mondo intero, subiti in misura diversa, ma tali da provocare effetti di enorme portata, sia per interi popoli che per i singoli individui.
    Tali eventi, per la nostra città, culminarono nel bombardamento che portò Atene nel nostro paese. Le vicende della guerra e quelle familiari avevano rafforzato un carattere fiero e combattivo, ma di certo avevano lasciato la loro traccia nei suoi ricordi, nei sentimenti e nella sua emotività. Nonostante avesse affrontato tanti dispiaceri e disagi, il punto debole per lei erano i temporali. Tuoni e fulmini, probabilmente, evocavano nel profondo della sua sensibilità i momenti devastanti della pioggia di bombe sulla sua città, sulla sua casa.
Durante un temporale notturno forse più violento del solito, o che forse la colse in un momento di maggiore fragilità, sfidando l’infuriare della pioggia e del vento, uscì dalla sua casetta e, alla luce balenante dei lampi, riuscì, superando il fragore continuo del tuono, a far udire i colpi bussati alla porta di una famiglia del vicinato, che la accolse e, da allora, le dette ospitalità per la notte.
    Da allora la sua giornata laboriosa continuò a svolgersi nella sua stanzetta, tra le poche necessità domestiche, date le piccole dimensioni del locale, e i lavori di cucito, con i quali integrava la modesta pensione, ma per i quali spesso rifiutava il compenso per gratitudine per qualche favore ricevuto. Sul far della sera, però, indossata la mantella grigia, uno scialle rotondo di lana, fermato con una spilla da balia, chiudeva l’uscio di legno, color verde stinto e si avviava verso la corte, con passo assai sicuro, nonostante il trascorrere degli anni. In inverno, sotto al grembiule, le sue mani, sempre più ossute e venate, stringevamo il manico del “caldano”, che ella riforniva di “brusta” al focolare della prima casa che visitava. 
    La nostra piccola corte si componeva di poche abitazioni ad alcune costruzioni agricole, ma non mancava un bel giardino e una gigantesca acacia davanti alla nostra casa e al portico. Due alberi di arancio e un grosso caco ombreggiavano i cortili delle due proprietà  adiacenti alla nostra. Un grande orto, in parte tenuto a frutteto, ci divideva dalla strada pubblica. Sulla curva, un palo in legno dell’illuminazione che reggeva la sua lampada avvitata sotto un piatto metallico, segnava il limite tra il piccolo mondo della corte e il resto del paese. Da lì si dipartiva una breve viottola sterrata, assai larga per consentire il passaggio dei barrocci  e dei primi mezzi a motore, che si addentrava nella corte, delimitata dalla siepe di rosmarino da un lato e dal muro giallo che recintava l’ampio cortile dei nostri vicini dall’altro. A ore diverse, secondo la stagione, prima che il breve percorso  fosse reso più difficoltoso dal buio della sera, si poteva vedere la figura di Atene avanzare sulla viottola.
    La presenza dell’anziana donna era gradita e direi quasi attesa nelle case dove si fermava, dopo aver consumato a casa sua una cena frugale, poiché il suo carattere schivo e riservato non le avrebbe permesso di approfittare troppo dell’ospitalità altrui, anche se molte volte profferta. La sua correttezza era risaputa e, pur frequentando diverse famiglie, mai una critica o un’indiscrezione usciva dalle sue labbra, nessun commento o giudizio era espresso nei confronti delle cose di cui era sicuramente a conoscenza e questo le accresceva intorno rispetto e stima.
Questo ritmo di vita continuò fino a quando la famiglia che la ospitava per la notte si trasferì poco lontano, in una grande e bella casa di nuova costruzione.
    Nel frattempo la nostra famiglia aveva subito la perdita del nonno paterno. Il nonno aveva esercitato i duri mestieri di norcino e carrettiere ; l’età avanzata aveva prodotto nella sua pur robusta persona i danni che il tempo infligge a tutti. I nostri genitori, occupati allora con il lavoro agricolo e con noi figli ancora piccoli, lo avevano assistito giorno e notte, per due lunghi anni, quando, ancora forte nel corpo, ma vittima della senilità della mente, aveva bisogno di una costante vigilanza . Nonostante che il babbo e la mamma fossero impegnati in questa pietosa ed estenuante opera di assistenza e, successivamente, si fossero trovati a fronteggiare situazioni difficili, preoccupazioni e sacrifici causati da altre vicende familiari, noi ragazzi ci siamo resi conto pienamente solo dopo, negli anni, di quella realtà, poiché allora essi riuscivano, nonostante tutto, a far sì che noi bambini si vivesse un’infanzia serena, nella sicurezza dell’affetto e dell’appagamento dei bisogni essenziali e, quando era possibile, anche dei nostri modesti desideri.
    Fu così che la nostra famiglia potè rispondere allo sgomento di Atene, trovatasi priva del ricovero notturno e già timorosa per la solitudine che si prospettava, offrendole il posto rimasto libero in casa nostra. La sua gratitudine fu pari alla discrezione che caratterizzò sempre la sua permanenza. Erano tempi in cui non si conosceva neppure la parola privacy. Divideva la camera con mio fratello, che intanto si avviava all’adolescenza, ma si era subito adattato di buon grado alla situazione e lei, rendendosi conto dell’insolita convivenza tra una vecchia donna e un ragazzo di quell’età, avendo cura di non procurargli alcun imbarazzo, non perdeva l’occasione per manifestare la sua riconoscenza.
   
    Per le feste solenni, derogando dall’abitudine di prendere i pasti da sola, Atene era ospite di alcune famiglie del vicinato o di una lontana parente. Il giorno di S. Stefano, per tradizione, eravamo noi ad averla a pranzo e, anche se la sua presenza a casa nostra era una consuetudine, quel giorno ci sembrava più festoso.   
    Così passò diverso tempo ed il miracolo economico degli anni sessanta stava cambiando la vita, il costume e la mentalità degli italiani. Anche da noi la diffusione dei primi elettrodomestici portava la tecnologia nelle case e nuove fonti di informazione, e di divertimento. All’inizio le famiglie si riunivano in casa dei primi possessori del televisore, mentre gli uomini generalmente andavano al bar, soprattutto per seguire  gli avvenimenti sportivi . In seguito, con il benessere più generalizzato, ognuno si chiuse a casa propria e fu l’inizio di un cambiamento nella vita di relazione che fino ad allora aveva animato  il paese e che qualcuno ancora rimpiange.   
    Atene era affascinata dalla televisione, tanto che convinse i miei genitori ad acquistare un apparecchio, spesa non prevista nel nostro misuratissimo bilancio familiare, alla quale ella si impegnò a contribuire con una parte della sua pensione .Il destino volle che il suo contributo si fermasse alle prime due rate, ma nessuno, ovviamente, recrimino…
“Così si può vedere quel romanzo che punta”, diceva alludendo agli sceneggiati che a quell’epoca erano il piatto forte dei programmi televisivi e noi ragazzi la prendevamo in giro per quell’uso improprio del verbo puntare. D’altra parte la parola puntata per lei, abituata agli atti delle recite in teatro, suonava estraneo e insignificante.
    Nel suo linguaggio le canzoni erano storiee mi piaceva imparare qualche scioglilingua“ Aspinosponospio, levaci tutti i pii asino sono io” “Se l’Arcivescovo di Costantinopoli…”, con quel gusto per le formule senza senso che affascina i bambini, prolungando il mistero delle fiabe. Dai suoi lontani ricordi di scuola ripescava la sequenza dell’alfabeto e io, abituata alle ventun lettere, quando inseriva la x e la y tra la vu e la zeta( ichise, issilònne, come pronunciava lei) restavo perplessa e sentivo vacillare le mie poche certezze scolastiche.
    C’erano molte altre espressioni caratteristiche del suo modo di parlare, che aveva conservato l’accento pisano di Portammare, con le erre raddoppiare e le e aperte  in fine di parola e l’uso di termini per noi inconsueti .“Non vi date!”, ci implorava quando io e mio fratello si passava alle vie di fatto per qualche dispetto fatto o ricevuto.
 Oppure “un ni tiri “ intercedeva presso la mamma, senza mai rinunciare al borghese “lei” quando, seppur raramente, si avvicinava il momento di qualche sacrosanto scappellotto, che ella cercava di risparmiarci. Noi ricambiavamo questa specie di complicità dandole il “voi”, come la mamma voleva, ma non si trattava solo di un rispetto formale, poìché il nostro rapporto ricordava da vicini quello tra nonna e nipoti.
    Per la naturale contrapposizione tra le generazioni, qualche volta noi ragazzi ci si lasciava andare a qualche segno di insofferenza, dovuto alla noiosa ripetizione di rimproveri o raccomandazioni che la prudenza e l’esperienza mettono in bocca ai vecchi e dei quali i più giovani spesso pensano di poter fare a meno. Così quando, in quinta elementare, durante la lezione di bella calligrafia ( disciplina nella quale riuscivo decisamente peggio che in tutte le altre), quando la nostra amatissima maestra  ci chiese di scrivere, sotto l’elaborata greca floreale copiata dalla lavagna, una delle sette “Opere di Misericordia Spirituale”, io, sotto al disegno schematico maldestramente copiato, scrissi “Sopportare pazientemente le persone moleste”, consegnando una delle peggiori pagine della mia carriera scolastica, per cui il senso di colpa è sopravvissuto per anni, ma questo episodio indica, in fondo come questa figura fosse considerata al pari di una vera nonna.
    I nostri genitori, rinunciando al lavoro dei campi, che non garantiva più il minimo necessario per il sostentamento della famiglia, avviarono un piccolo negozio di generi alimentari; la mamma era impegnata nella bottega, mentre il babbo provvedeva ai rifornimenti e altre commissioni. Al mattino era Atene a svegliarmi ed a prepararmi per la scuola. Io ero una bambina assai obbediente e non mi sarei mai permessa di farla tribolare, ma erano molte le volte che, quando si voltava, rovesciavo nel lavello di cucina il caffellatte, per la fretta che hanno gli scolaretti di uscire di casa, non prima che Atene avesse tentato di pettinarmi, cosa non facile con i miei capelli ricci e ribelli, e sulla testa mi metteva un fiocco che faceva il paio con quello azzurro che completava il colletto del grembiulino bianco, abbottonando poi al volo l’ultimo bottone, con le mani ormai tremule, mentre io già la salutavo con un piede fuori dalla porta e la cartella in mano.

    Talvolta le date significative di una vita sembra che siano legate da un filo invisibile. Atene, una vita lunga 85 anni, la giovinezza negli ultimi decenni dell’800, la maturità e la vecchiaia nel ventesimo secolo, era nata e morì nel mese di marzo.
Queste sono le date che si leggono nella piccola lapide al Cimitero di Vecchiano, lassù in alto, nella quinta fila, dove riposa insieme ad Oreste: 11 marzo 1877 – 29 marzo 1963.
Ci sono entrambe le fotografie. Oreste, un bell’uomo dall’aspetto austero. Anche Atene aveva tratti piuttosto severi. La foto, un po’ sbiadita, la ritrae  già molto avanti negli anni con i capelli non del tutto canuti, tirati e fermati all’indietro. Occhi un po’ infossati, vivi e pensosi, a guardare lontano; la piega delle labbra accentua la severità del volto scarno.
Era una donna di statura media ed un corpo che doveva essere stato agile e prosperoso e del quale il passare degli anni non aveva del tutto cancellato la prestanza. Anche se, è naturale, gli acciacchi si facevano strada. A conferma di un’indole fiera e dignitosa, ed abituata alla sopportazione, le lamentele erano rare. Ciò confermava la volontà di disturbare il prossimo il meno possibile. Negli ultimi anni, dietro a questa specie di stoicismo, c’era una malcelata paura che la sua condizione di donna sola inducesse le persone che le erano più vicine a ricorrere ad un ricovero per anziani, una prospettiva che ella rifuggiva con tutte le sue forze.
Si ammalò seriamente una prima volta, quando ancora abitavamo nella vecchia casa. Una brutta polmonite che, lentamente, riuscì a superare. Era la mamma ad assisterla,  dividendosi tra la famiglia, l’attività e le necessarie attenzioni per lei, in un momento così critico. Spesso io e altre bambine del vicinato le facevamo compagnia, ma non era la solita Atene, sempre pronta a raccontare “ ai miei tempi…”. In seguito una premurosa vicina si prese cura di lei durante la convalescenza e, intorno alla primavera, la malattia fu superata.
    Intanto anche nella nuova casetta, che il babbo aveva  progettato e costruito da solo, nella bufera di vicende familiari, liti, contese e amarezze seguite alla morte del nonno, Atene conservò il suo posto per la notte  e tutto continuò come prima: noi un po’ più grandi, i genitori molto provati dalle avversità affrontate, Atene un po’ più vecchia.
    Mail tempo continua il  suo percorso e quando, l’inverno successivo, ci fu una ricaduta della sua malattia, fu inevitabile il tanto temuto ricovero nell’ospedale cittadino. Così Atene, dopo vent’anni, fece ritorno, suo malgrado, nella sua Pisa, con il presagio di non tornare più a Vecchiano.
    Nello stesso periodo anche una ragazzina, mia amica, fu ricoverata nella stessa clinica e, con un gruppo di vicine, andammo a trovarle. La clinica di medicina generale che le ospitava, aveva ancora il vecchio assetto, con enormi corsie affollate, dove si allineavano quattro file di letti, con quelli centrali accoppiati per la testata l’uno all’altro. Ne risultava un ambiente privo di ogni intimità e ciò aumentava disagio e sofferenza, che il prodigarsi del personale spesso non riusciva ad alleviare.
    Era la prima volta che entravo in un luogo di dolore e l’angoscia era accresciuta dal ritrovare in quell’ambiente, dove si mescolavano persone di tutte le età, la mia compagna di giochi, quasi fuori posto, come l’immagine di un sogno assurdo. Al saluto vivace della ragazza, si contrappose il sorriso spento dell’anziana paziente, nel cui atteggiamento era visibile lo sforzo di accogliere le visitatrici nel migliore dei modi. Le sue parole esprimevano affetto e gratitudine, ma gli occhi avevano perso la vivida luce di quando i suoi racconti mi incantavano.
    Fu l’ultima volta che la vidi. Dopo poco Atene morì: il suo presagio si era avverato. I soldi che poco alla volta aveva messo da parte servirono per una sepoltura decorosa, secondo la sua volontà. Il funerale ci fu l’ultimo giorno di marzo, una giornata ancora fredda, con il vento che spazzava cumuli di nuvole bianche, lasciando un cielo limpido e azzurro.
     Anche la notte il cielo era sereno e lucean le stelle.

1 commento:

  1. Deve essere stato importante nonostante i tuoi disagi di bambina l'incontro con questa persona per avere descritto con amore e rispetto le sue vicende.Ed è da adulti che ci rendiamo conto di quanto valore abbiano avuto certi incontri nella nostra vita :-)

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